Èstate 1985. Al teatro del Duke Of York di Londra suonano i Coward Brothers ovvero Elvis Costello ed il suo ultimo complice di plettro, T Bone Burnett. In platea si agita Steve Nieve, lo straordinario tastierista degli Attractions, abituale gruppo accompagnatore di Costello. Ha capito che il gruppo avrà soltanto un ruolo minore nella realizzazione di King of America, nuovo album del musicista inglese. E non ci sta: "Era completamente ubriaco — ricorda oggi Costello — e quando alza i I gomito diventa davvero irragionevole. Il fatto è che avevo pensato di distinguere l'album in due parti. Una da solo ed una con gli Attractions. Solo che quando sono capitato in tour in Australia ho pensato di coinvolgere brano per brano i musicisti che ritenevo più adatti alle varie composizioni".
Poi le cose sono ancora cambiate e se in un primo tempo le ormai leggendarie attrazioni avrebbero dovuto eseguire cinque brani oggi si limitano solo alla controversa (ma tipica nel repertorio costelliano) "Suit Of Lights". Composizione di varie suggestioni che allude con tenerezze ed ansie ad un nuovo ciclo. Eccone il dettaglio. Innanzitutto il nome: adesso Costello si fa chiamare come l'anagrafe pretende da trentadue anni: Declan Patrick Aloysius Mac Manus. Naturalmente ce lo spiega: "È da diversi anni che intendevp sfuggire all'immagine assodata, al carattere spesso mitico che la gente ha affidato al marchio Elvis Costello. L'ho fatto per ricordare a tutti che c'è un essere umano dietro questi occhiali un po' eccentrici". Ma non è l'unica novità di King of America. Il disco non è attribuito nemmeno a MacManus bensi ad un fantomatico Costello Show (quasi a suggerire il carattere estrosamente transitorio della circostanza) che l'ha spuntata dopo un lungo ballottaggio su un'altra sigla curiosa, quella di MacManus Gang. La copertina che ritrae il cantante con una corona pacchiana (da romanzo In maschera) rimanda a lezioni zappiane di sarcasmo. Il titolo ed il disco tutto sono l'ennesima smorfia di Elvis ad un'America che lo adottò volentieri all'epoca di Armed Forces ma che succes-sivamente non gli ha mai perdonato una feroce scazzottata con alcuni roadies di colore dell'entourage di Stephen Stills. Soprattutto non ha mai dimenticato un malgelato movente razzistico che per anni il povero Costello s'è affannato a smentire. Cosi oggi si riduce ad intonare una buffa — se vogliamo — "American Without Tears" che per il vivido tono narrativo e l'intervento tenue di una fisarmonica ci spiega subito il senso dell'album. Ebbene, King Of America è l'incrocio problematico fra Almost Blue (paragrafo country della carriera di MacManus prodotto dal folkloristico Billy Sherril) e Imperial Bedroom disco di cerebrale canzonettismo. Per cui la fisarmonica cui si accennava rammenta la delicata "The Long Honeymoon". Meno superfluo delle canzoni registrate a Nashville, meno tormentato rispetto alle melodie della camera da letto imperiale, "King Of America" non esalterà forse gli autentici cultori della poetica costelliana ma non riuscirà nemmeno a deprimerli.
Lui vede di farsi capire: "Questo è davvero il disco che volevo fare. Mi sono realmente divertito nel registrarlo, come non era accaduto con lo scorso Goodbye Cruel World. Quello era l'unico brutto disco che abbia mai fatto. E molte bands sarebbero contente sul serio se avessero fatto mai un disco del genere. Ciò può sembrare arrogante ma è come stanno le cose. Registrando King Of America, invece, è stata la prima volta che non ero del tutto sicuro dl ciò che stavo facendo. Ed è una sensazione stimolante in un certo senso".
Tuttavia — aggiungiamo con un filo di cinismo — c'è chi ci è venuto a trovare suggerendo un titolo per il pezzo: un brillante errore. Questo ispirandosi a "Brilliant Mistake" una tipica ballata che apre il disco. Qui Elvis canta: "Lui credeva di essere il Re d'America / Ma non gli restava altro che un viale di sogni infranti".
L'America che traspare dai solchi è un paese senza pentiti che però ha paura di chi si rassegna e di chi comincia a rendersi conto di una sconfitta. Costello grida allora di "Rose Avvelenate" e si rifugia nel passato per dimenticare l'urgenza della cronaca (non a caso al Live Aid ha cantato la nostalgica "All I Need Is Love"). Ecco dunque la collaborazione premeditata con alcuni musicisti della TCB band di Presley, singolari personaggi come Jim Keltner ("Il più selvaggio batterista col quale abbia mai lavorato") ed una teoria di brani ricchi di motivi. "Our Little Angel" e la sua intensa vena drammatica, il remake elegante di "Don't Let Me Be Misunderstood" condotto da una voce rauca e sofferta, l'ironia corrosiva di "Glitter Gulch", l'aria dimessa e parlatissima" di "Indoor Fireworks".
Costello ha confidato che aveva bisogno di un album come questo. L'altro anno ha avuto solo cinque giorni di riposo. Ha prodotto i Pogues (ed è imminente una nuova collaborazione in forma di ep), ha partecipato alla colonna sonora di Absolute Beginners, ha inciso "People's Limousine" come Coward Brothers, ha prodotto i The Big Heat, ha partecipato a Be Yourself Tonight degli Eurythmics.
Interrotta troppo in fretta la ricerca fatta sui fiati con Punch The Clock e Goodbye Cruel World, Elvis sembra aver bisogno solo di sani ricordi. Quindi i ritagli più persuasivi del nuovo disco sono "Eisenhower Blues" uno standard di J.B. Lenoir che canta divinamente e "Lovable" un divertissement che evoca gli Stray Cats come pure Gene Vincent. Rimangono ancora riflessi di "Radio Sweetheart" (retro di "Less Than Zero", il suo primo singolo) che fin dal '77 ammiccava a nenie country e qua e là emerge l'irresistibile intimismo delle sue grandi canzoni sussurrate come "Tears Before The Bedtime" e la più recente "Inch By Inch". Costello è al di sopra di ogni moda (persino di ogni modellismo) ed in fondo crediamo che il suo sogno sia quello di cantare sino alla noia con una chitarra acustica "Clowntime Is Over", manifesto soul che ha diffuso nell'80 e che più di recente dal vivo ha offerto in un toccante arrangiamento con gli Attractions e i TKO Horns (nei bootlegs doppi Everyday I Play The Boot).
King Of America — ci avviamo ad una morale — non ostenta il feeling di album come Get Happy o la geniale intriganza di This Year's Model ma ribadisce con diverse lodi l'irrequietezza di una artista che si vergogna di stilare un elenco di prossimi dilemmi: "Voglio imparare a guidare, a suonare la tromba, ad immergermi sott'acqua, a scrivere libri su temi impossibili da strombazzare nelle canzoni. Ce ne sono molti".
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