Jam, April 2001: Difference between revisions

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<center><h3>Quando Elvis non fa rima con rock</h3></center>
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Quando Elvis non fa rima con rock


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Ezio Guaitamacchi

La cosa non dovrebbe più far notizia. Eppure, vi confesso, continua a stupire anche chi come il sottoscritto è quotidianamente sommerso da decine di produzioni discografiche d’ogni genere e abituato alle più astruse combinazioni sonore.

Già, perché, da una decina d’anni a questa parte, ogni nuova avventura di Elvis Costello offre sempre qualcosa di speciale: infatti, dopo aver duettato con Ute Lemper prima e Burt Bacharach poi, sperimentato il fascino di un quartetto d’archi (Juliet Letters), diretto il prestigioso Meltdown Festival e scritto musiche per il cinema e per il teatro, l’eclettico Declan Patrick Aloysius MacManus (con un nome così uno o s’inventa velocemente uno pseudonimo o finisce dritto in ospedale psichiatrico) è oggi riuscito a convincere la deliziosa mezzo-soprano svedese Anne Sofie Von Otter a cimentarsi in un repertorio pop.

Ecco lo stupore, in questo caso addirittura doppio, perché non solo il vecchio Elvis insiste imperterrito a percorrere strade distanti dal rock ma perché adesso ha addirittura preteso che una cantante lirica in qualche modo rinnegasse la sua essenza artistica.

Partiamo da questa seconda teoria.

In passato, sono stati compiuti diversi tentativi di far coesistere il pop-rock con la musica classica o sinfonica. Quasi tutti sono falliti miseramente. Secondo il mio modesto parere, anche le operazioni tentate dal nostro amato Elvis (benché incensate dalla critica) non sempre hanno colto nel segno.

Mi spiego: Mr. Costello ha una cultura e uno spirito inequivocabilmente rock, difetti e approssimazioni tecniche incluse. Il suo modo di cantare impreciso nel ‘pitch’ della nota e qualche volta persino negli attacchi stride, ad esempio, a contatto con la pulitissima, quasi fantascientifica, tecnica del Brodsky Quartet (Juliet Letters) o con la raffinata musicalità di Burt Bacharach. So che molti non la pensano come me, anche all’interno di JAM (andatevi a rileggere l’entusiastica recensione che aveva scritto Gianni Sibilla a proposito del duetto Costello/Bacharach) ma poco importa. Primo perché sono un direttore molto democratico, secondo perché mi rendo conto che a molti le stonature non fanno né caldo né freddo: a me, invece, danno fastidio. Così come mi dà fastidio sentire cose che, stilisticamente, mal ci azzeccano l’una con l’altra.

Sarà un caso, ma se stavolta l’operazione funziona è anche perché l’ottimo Elvis, pur presentissimo dietro le quinte, ha deciso di defilarsi, in parte, dalla prima fila. Tra l’altro, come producer/arrangiatore, aveva già mostrato più volte le sue qualità. Vi ricordate Rum, Sodomy And Lash, il secondo, entusiasmante album degli sgangheratissimi Pogues? Nel 1985, dietro quella consolle (e a far quadrare gli arrangiamenti) c’era lui, il nostro Declan Patrick Aloysius MacManus.

Così, dopo essersi preso una cotta artistica per la Von Otter, le ha confezionato su misura (quasi fosse uno stlista sopraffino) un progetto di classe e spessore artistico fuori dal comune. Lo ha chiamato For The Stars dopo aver messo insieme 23 brani, molti scritti per l’occasione, altri presi a prestito dal songbook di alcuni tra i più illuminati autori del Novecento: Paul McCartney, Brian Wilson, Tom Waits. Devo dire, che la Von Otter nell’occasione si dimostra assai più elastica della maggior parte dei ‘colleghi’ classici. La sua voce splendida e la sua tecnica impeccabile si modellano sulle melodie pop e ne catturano lo spirito senza ricorrere a gorgheggi esasperati o a rigidità da Conservatorio. Insomma, sembra una Baez con voce più piena ma con lo stesso feeling e la medesima eleganza. Provate ad ascoltare la graziosissima For No One di beatlesiana memoria dove Anne Marie canta in modo altamente suggestivo supportata unicamente dal quartetto d’archi post-moderno degli svedesi Fleshquartet. Altrettanto affascinanti sono le due cover dei Beach Boys di Pet Sounds: addirittura Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder) sembra un brano di Gershwin mentre delicata e preziosa risulta la versione della bellissima You Still Believe In Me. E il nostro Elvis?

Oltre alla scrittura dei brani e alla produzione artistica, elabora arrangiamenti colti, raffinatissimi, partecipa qua e là come musicista (suona chitarra acustica e pianoforte) e ogni tanto duetta vocalmente. Ma lo fa o su pezzi a sua firma o a firma di autori rock (Tom Waits, Ron Sexsmith) evitando quindi la trappola dell’impietoso confronto tecnico cui avevamo accennato prima. Il risultato non ammette discussioni: eccellente, sotto tutti i punti di vista. Unico, eventuale punto di debolezza, è l’andamento (a volte fin troppo soft) del disco. Per il resto, For The Stars (a proposito, ottima la title-track che chiude l’album) è un lavoro intenso, intelligente, pieno di belle canzoni e di grandi atmosfere.

Certo, e qui torniamo alla prima parte della considerazione iniziale, fa sempre più specie che un songwriter inglese che ha deciso di ribattezzarsi artisticamente con il nome della più leggendaria rockstar della storia e con il cognome di uno dei più buffi comici americani (anticipando di vent’anni lo schema concettuale adottato da Brian Warner, alias Marilyn Manson) si stia sempre più allontanando dalle sue origini rock. È vero che sono passati più di 24 anni dal suo disco d’esordio, quel My Aim Is True attraverso il quale l’allora ventiduenne Costello, agghindato alla Buddy Holly, si era segnalato come l’intellettuale del punk e quasi 15 da quel fantastico King Of America in cui riscopriva le radici folk, blues e country filtrandole attraverso al sua cultura di rocker britannico. Ma è anche vero che, come lui, altre menti illuminate del mondo rock stanno gradualmente prendendo le distanze dalla loro musica d’origine. E non sono i soliti David Byrne, Paul Simon, Peter Gabriel o tutti coloro che si sono cimentati con successo nella riscoperta di culture etniche o nella elaborazione di sempre nuovi concetti di world music. Penso a un Joe Jackson che fa ormai il compositore di opere sinfoniche, a una Laurie Anderson che è da tempo tornata a militare nell’avanguardia dalla quale proveniva, a una Suzanne Vega che prova a cimentarsi con la poesia. E mi viene in mente non tanto ciò che Sting profetizzava dieci anni fa sentenziando la precoce morte del rock (anche se da lui ci si sarebbe poi aspettato qualche guizzo creativo in più) quanto la più credibile e ragionata riflessione di Ian Anderson (Jethro Tull): "Non dico che il rock sia destinato a morte certa ma di sicuro non avrà mai più lo stesso valore innovativo, la stessa energia creativa, la stessa originalità che ha vissuto tra la fine degli anni 50 e la prima metà dei 70".

Elvis (Costello) forse è d’accordo con lui. Anche se una curiosità, a questo punto, sorge spontanea: se fosse ancora tra noi, Elvis (Presley) che musica suonerebbe?

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Jam, No. 70, April 2001


Ezio Guaitamacchi reviews For The Stars

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Cover.

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