Jam, June 2009

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Jam

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ELVIS COSTELLO

Nashville Skyline


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Claudio Todesco

CHE SPECTACLE!
Grande musica nel programma tv di Costello
LA SCOPERTA DELL'AMERICA
Tre album al centro del rapporto con la musica delle radici

Un grande cantautore. Un produttore eccellente. Cinque musicisti bluegrass doc. Sullo sfondo, lo skyline di Nashville. È il cast di “Secret, Profane & Sugarcane”, la dichiarazione d’amore definitiva di Elvis Costello per la musica dell’America profonda

Diciamo che è il 1981, un giorno di maggio. E diciamo che sei a Nashville, dove hai appena finito di incidere un disco chiamato Almost Blue. Sei un cantautore inglese, il tuo stile è uno dei più taglienti e controversi dell’ultima generazione, e quello è il tuo primo album americano: un’esplorazione del repertorio di grandi del country che fa a pugni con la reputazione di rocker iconoclasta che ti sei fatto. Di giorno incidi col gruppo, di sera ti fai una bottiglia dietro l’altra. Diciamo che quello è il giorno in cui si sono chiuse le session e sei reduce da una notte movimentata. E diciamo che il leggendario Johnny Cash t’invita nella sua casa a Hendersonville, una trentina di chilometri dalla città. Entri nel capanno dove Cash usa scrivere e ti dirigi verso il camino. Su una trave di legno vedi iscritte le firme di chi è passato di lì. Aggiungi la tua, con mano tremante: Elvis, come il grande Presley. E Costello, come tua nonna.

Elvis Costello ha passato parte della carriera ad abbreviare la distanza che separa l’Inghilterra dagli Stati Uniti. Forse è uno di quegli «americani immaginari» di cui scriveva Leslie Fiedler. Forse è solo un fan devoto. Forse è entrambe le cose, e senz’altro un artista che ha deciso di andare in fondo al significato della propria musica. L’ultimo capitolo di questa storia è Secret, Profane & Sugarcane, un album quasi interamente acustico che segna il ritorno nella capitale mondiale della musica country, per la regia del grande produttore T Bone Burnett. I due sono amici e ogni tanto si esibiscono col nome di Coward Brothers: cantano cover e traditional pretendendo di esserne gli autori. Burnett è il partner perfetto per le incursioni roots dell’inglese. «T Bone» mi racconta Costello al telefono da New York «ha un senso cinematico della produzione, nel senso che mette assieme veri e propri cast. Non usa band con un loro sound, le assembla a seconda dello scopo che vuole conseguire. Ai tempi di King Of America il cast lo facemmo addirittura canzone per canzone. Allora fu uno shock. Poi ho collaborato con decine di musicisti, da Paul McCartney ad Allen Toussaint, e fare dischi in questa maniera è diventato naturale». Il risultato è la dichiarazione d’amore forse definitiva per la musica bianca dell’America profonda, come e più del giovanile Almost Blue. «Ai tempi di quell’album di cover» dice Costello «cercavo di esprimere tramite canzoni altrui il sentimento di desolazione romantica che provavo. Fu ai tempi di King Of America, anche quello prodotto da T Bone, che cominciai a usare seriamente il linguaggio della musica acustica».

Nonostante siano due dischi musicalmente distanti, e suonati da musicisti differenti, Secret, Profane & Sugarcane è legato tematicamente a un’altro disco americano, The Delivery Man del 2004. «Una ragione c’è» spiega Elvis. «La storia di Hidden Shame che trovi nel disco nuovo è l’antefatto di The Delivery Man. È la vicenda di un uomo che deve sopportare il peso terribile di avere commesso un omicidio da ragazzo. Era nata come una storia, una vera opera. Alla fine ho deciso che era meglio calare canzoni dal taglio narrativo in mezzo ad altre che non hanno a che fare con una storia, ma con sensazioni immediate, con sentimenti». Delivery Man e Secret sono accomunati dai temi della colpa, del male, del peso dei segreti. E dal fantasma di Johnny Cash: il rapporto dell’inglese col leggendario musicista americano ha dettato direttamente o indirettamente molte di queste canzoni, il loro tono, la loro profondità. «Non tutti proveranno nella vita esperienze come quelle dei protagonisti di queste canzoni» ragiona Costello «ma di certo i loro pensieri e i loro sentimenti sono presenti in qualche misura nelle vite di tutti. Canto del male che c’è dentro di noi, ma mi astengo dal dare giudizi morali: proprio come faceva Cash. Lasciando il giudizio in sospeso attiro l’attenzione di chi mi ascolta. Prendi She Was No Good: si ferma improvvisamente proprio per sottrarsi a qualsiasi morale. Resta in sospeso nell’immagine del cotone insanguinato e degli schiavi nelle piantagioni: è uno shock improvviso piazzato ad arte per interrompere il viaggio narrato nella canzone. Subito dopo parte un altro tipo di viaggio, quello di Sulphur To Sugarcane: non offro un legame tra le due canzoni, lascio che il fatto di ascoltarle una dopo l’altra susciti domande in chi ascolta». Sulphur To Sugarcane è stata scritta durante il tour con Dylan nel novembre 2007: ad ogni città toccata Costello aggiungeva un verso sulle caratterstiche delle donne di Poughkeepsie («take off their clothes when they’re tipsy», «si tolgono i vestiti quando sono brille»: in italiano non rima), di Bloomington, di Worcester o di Ypsilanti («they don’t were any panties»). È tipico degli americani descrivere sentimenti e raccontare storie tramite i luoghi. «Nei nomi delle città risuona un’eco mitica, ma solo alle orecchie di chi non è mai stato in quei luoghi. È un vecchio espediente. Pensa a Galveston di Jimmy Webb o alla mia Toledo, sul contrasto tra la città industriale dell’Ohio e quella spagnola. O a Streets Of Laredo. Nel mondo della canzone le città sono il palcoscenico su cui si svolgono i drammi umani. Non credo sia un’abitudine solo degli artisti americani: è che loro hanno un territorio immenso e pieno di contrasti da raccontare. In quanto a Sulphur To Sugarcane, narra di un politico che gira di città in città a raccogliere fondi e consensi. Sai, il tipo che lusinga la gente e flirta con le signore, non un tipo esattamente amabile». E aggiunge ridendo: «Voi italiani sapete di quale tipo di politico canto, giacché ne avete uno come primo ministro».

La strumentazione acustica ha permesso a Costello di amalgamare canzoni molto diverse e dall’ispirazione varia. «I musicisti messi assieme da T Bone, come Jerry Douglas (dobro) o Stuart Duncan (violino), sono straordinari eppure spontanei: è stato fatto tutto in due, tre take al massimo. Così è rimasto un suono vivido. Non voglio vivere nel passato e questo non è un disco nostalgico. Alcune di queste canzoni nascono da dettagli storici, ma il sentimento che esprimono è valido anche ai giorni nostri. Non sono un cantante country, è ovvio. E questo non è un disco bluegrass. Ma uso quella musica per dare vita alle mie canzoni. La ballata è una forma universale, presente nella tradizione di qualunque paese al mondo: sta alla base della musica popolare. Da tempo immemore le canzoni veicolano storie: è quel che faccio io, è quel che facciamo tutti».

Secret, Profane & Sugarcane è l’ultima tappa di un viaggio iniziato molti anni fa, di una passione che affonda le radici nell’Inghilterra di fine anni 70. Mentre i giornalisti chiamavano «punk» questo cantautore occhialuto e inclassificabile, lui rovistava in incisioni di trenta, quarant’anni prima. «Già nel mio disco d’esordio» mi racconta «avevo messo elementi di american music che come appassionato ascoltavo dalla fine degli anni 60. Ho iniziato a scrivere canzoni cercando di imitare lo stile dei grandi americani: ovviamente il risultato era scadente. O meglio, era buono solo quando l’imitazione era talmente fallimentare che veniva fuori qualcosa di inaspettato e quindi di vagamente originale». Quelle prime simulazioni potevano essere maldestre, ma nascondevano un amore sincero per quei musicisti e soprattutto il desiderio di avere una storia dietro le spalle, un’aspirazione legittima, ma non proprio popolare in quegli anni. Mentre i suoi coetanei punk dicevano che non c’era futuro e che il passato era corrotto, Elvis s’abbeverava alla fonte della storia. «Sono cresciuto al di fuori di qualsiasi tradizione: in un certo senso l’ho trovata in America. Non per scelta ma per affinità: conoscevo la musica folk britannica, ma non mi sembrava parlasse di me, della mia esistenza. Il resto è venuto per curiosità. È successo a tanti: cominci cercare dischi simili a quelli che ami e capisci che certa musica affonda le radici nel Mississippi, a Memphis o a New Orleans. La musica che amavo era interconnessa: per prenderne coscienza mi dovetti liberare dalla paura. Parlo della paura di guardare indietro, per potersi muovere in avanti. Non ho mai considerato la questione in maniera analitica, ma per me è chiaro ascoltando i primi Rolling Stones che i musicisti inglesi riescono a interpretare la musica americana con un accento punky, in modo più tagliente, la qual cosa li allontana dalla pura imitazione di un Howlin’ Wolf, di uno Slim Harpo o di un Ray Charles. Il punto è che la musica non è definita da criteri geografici, ma dall’anima, dal cuore».

Del country, affrontato già nel 1979 registrando a Nashville con George Jones, Costello si è sempre detto interessato «all’aspetto dello storytelling e alla poetica austera. Ero poco più di un esordiente e già mi impuntavo per andare suonare nel sud degli States, in posti dove i gruppi punk dell’epoca di solito non si spingevano. Noi del resto non ci consideravamo un gruppo punk, ma rock’n’roll». Il tramite con quel mondo furono i Byrds: «Furono essenziali per portare la musica country a chi era cresciuto ascoltando tutt’altro. Mi riferisco a Sweetheart Of The Rodeo: capii che il country poteva essere hip. E lasciami citare anche The Band: il loro sound era figlio del loro tempo, non erano un gruppo rétro, eppure si volgevano indietro a forme arcaiche». La musica (non solo country) ha permesso a Costello di prendere confidenza con la complessità del sud degli States, un mondo che in Europa viene spesso rappresentato in modo stereotipato. «È un posto pieno di contraddizioni. Ecco perché non reggono le descrizioni che ne fanno le persone che non ci vivono. Senti tutte quelle storie sulla mentalità chiusa, poi ci vai e scopri che quella gente è dotata di un’immaginazione pazzesca. È l’America: è vera ogni cosa e anche il suo contrario». Vale anche per la musica... «Ci ho messo un po’ a capire fino in fondo il country. Ero sviato dai pregiudizi e dalle poche canzoni che avevo sentito alla radio. Gram Parsons è stato fondamentale: ascoltarlo mi ha spinto a recuperare i classici del passato. Il country ha l’anima, ha il soul: alcuni europei non lo riescono a capire. Altrettanto importante è stato Johnny Cash, la sua incredibile ricchezza di sentimento». Costello non immaginava che sarebbe diventato amico di quell’uomo. Quando Cash arrivava in Inghilterra, lui era ammesso nella sua ristretta cerchia di amici. Una sera fu invitato a salire sul palco con lui alla Royal Albert Hall di Londra. Era uno dei bis, si cantava Will The Circle Be Unbroken. «Prendi tu il prossimo verso», gli disse June. E lui: «Non posso, gli unici che conosco li avete già cantati». «Inventatene uno», gli ordinò June. L’americano immaginario obbedì. Non si discute con una Carter Cash.

Solo uno come Costello poteva far convivere nello stesso disco Johnny Cash e Hans Christian Andersen. Secret, Profane & Sugarcane possiede infatti un’anima romantica costituita da un ciclo di quattro canzoni ispirate allo scrittore danese ed eseguite per la prima volta a Copenaghen nell’ottobre del 2005 con l’accompagnamento di quella che Elvis chiama «un’orchestra tascabile». Sono quattro, ma ne esistono almeno altre due legate al medesimo progetto che non sono entrate nella scaletta. Perfettamente integrate alle storie di colpa e patimento del disco, le canzoni nascono quando, in vista delle celebrazioni per il bicentenario della nascita di Andersen caduto nel 2005, la Royal Danish Opera chiese al musicista di scrivere qualcosa. «Mi ero fatto un’idea distorta di Andersen basata sul film biografico con Danny Kaye (Il favoloso Andersen, 1952, nda) e sulle versioni espurgate delle sue favole. Scoprii che i suoi racconti sono molto più cupi e tormentati di quel che immaginavo». Ad intrigarlo era però la sua vita. La chiave per raccontarla fu offerta dalla lettura di un vecchio libro sul tour americano della cantante soprano svedese Jenny Lind. Organizzato da P.T. Barnum, quello del circo, è considerato uno dei primi, se non il primo tour musicale della storia americana. Nel 1850 l’impresario portò l’«usignolo svedese» a cantare negli States in una tournée lunghissima, 150 serate per un ingaggio di circa mille dollari a sera più le spese. Fu un’operazione finanziariamente rischiosa, che si rivelò invece un successo straordinario: si racconta che 40 mila persone si assembrarono al porto dove la Lind sbarcò, mentre altre 20 mila l’aspettavano davanti all’albergo. La cantante aveva una fama di persona candida – e parte degli incassi del tour furono impiegati per iniziative benefiche –, una fama che attrasse lo scrittore danese. «Andersen» ha spiegato Costello «veniva dalla povertà assoluta e abietta. Sua zia gestiva un bordello e una sorellastra faceva la prostituta. Veniva da un posto dove la fornicazione era la forma di valuta estrema, la più disperata». Lo scrittore finì per idealizzare la cantante e il suo candore. «Vestiva di bianco ed era famosa tanto per le canzoni pie, tanto per le arie d’opera. Una di esse mi immagino che sia How Deep Is The Red». Il libro getta un’ombra sulla fama immacolata della Lind, una svolta inattesa che ha dettato a Costello le parole di She Was No Good sugli episodi spiacevoli accaduti durante il tour del 1850. La terza canzone ispirata a questa storia è She Handed Me A Mirror, costruita su quattro diverse tonalità: «Andersen si innamorava di frequente, era un gran romantico ed era infatuato della Lind. Quando le chiese perché non ricambiava il suo amore, lei porse uno specchio allo scrittore». Una crudeltà, dato l’aspetto bizzarro del letterato. «Che sia accaduto veramente o no, quello che descrivo è un gesto simbolico: prima o poi tutti ci siamo sentiti inadeguati di fronte all’amore». Red Cotton è invece legata a Barnum, che al contrario di Andersen intratteneva con la donna un becero rapporto d’affari. La canzone lo coglie quando il tour del 1850 è passato da un pezzo e Barnum ci sta ancora speculando vendendo souvenir fatti con frammenti dei vestiti di scena della Lind. «Barnum era diventato un abolizionista, per convenienza più che per convinzione. In Red Cotton lo dipingo mentre legge un pamphlet abolizionista e intanto cuce quei frammenti di abito rosso che poi venderà ai fan europei». Costello sceglie di cantare di cotone per via della storia e dell’immaginario che il tessuto si porta appresso nel sud degli Stati Uniti: nel tagliare i frammenti di vestito Barnum si confronta col peso della colpa.

Ecco, la colpa. La colpa e il suo peso. I macigni che ci si porta dentro, silenziosamente. È il tema chiave del disco. La colpa e la vergogna. «Canto di faccende che restano irrisolte» sentenzia Elvis «e di come esse finiscono per segnarti la vita».

Passa un quarto di secolo e il figlio di Johnny, John Carter Cash, t’invita nuovamente nel capanno del padre. Non è una visita di cortesia: Loretta Lynn sta incidendo un tuo pezzo e ti è stato chiesto di aggiungere le armonie vocali. Johnny è morto e il luogo nel frattempo è diventato un piccolo studio di registrazione. Carter ti porta vicino al camino, a quel camino. Ti rammenti di quel giorno di maggio del 1981, di Johnny, della firma. La cerchi su quel vecchio pezzo di legno. Il cuore sobbalza quando la trovi, reperto di una passione mai sopita. Certe esperienze lasciano il segno.

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Jam, No. 160, June 2009


Claudio Todesco profiles Elvis Costello.

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Cover and pages scan.

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