Rumore, September 2013

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Rumore

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Intervista: Elvis Costello & The Roots


Elijah Alovisi and Francesca Mapleston

Quando due artisti decidono di collaborare per un disco, ci sono un po’ di regole non scritte per far sì che il risultato non sia deriso dal mondo intero (vero, Loutallica?): restare coerenti con i propri punti di partenza, unire al meglio le potenzialità delle due entità, sperimentare ma non troppo, divertirsi molto e non avere scadenze. La cosa è riuscita benissimo a Jay-Z e Kanye West, ad esempio: Watch the Throne era una perfetta celebrazione delle loro anime più spavalde, una dichiarazione di superiorità, due amici che avevano deciso di fare il disco della vita. Ecco, nonostante le diverse origini dei Roots e di Costello, il processo è stato simile e il risultato impeccabile. Amir “Questlove” Thompson e compagni ci hanno messo il groove, Elvis ci ha messo un campionario di testi apocalittici (ma con una sorta di speranza latente) e la sua voce inconfondibile. Quello che ne è uscito si chiama Wise Up, Ghost.

Come è partita l’idea di Wise Up, Ghost?

Ahmir Thompson: “Elvis venne al Late Night with Jimmy Fallon per la prima volta nel 2009. Sapevo che era fan di Voodoo di D’Angelo, a cui avevo lavorato, e così gli chiedemmo se gli andava di provare a “remixare” qualche suo pezzo. Era d’accordo, e così facemmo queste versioni tiratissime di High Fidelity e di (I Don’t Want to Go to) Chelsea. Se ne innamorò. Poi lo facemmo una seconda volta l’anno seguente, e ancora l’anno scorso, durante una settimana di tributo a Springsteen che Fallon aveva organizzato. A quel punto, a livello subliminale, stavo praticamente suggerendo una collaborazione più grande. L’ho proposto in modo passivo-aggressivo – avevo troppa paura di dire davvero, “Facciamo un disco insieme”.

Elvis Costello: “Ce ne stavamo andando via insieme dal set dello show dopo aver suonato Brilliant Disguise quando Quest mi disse questa piccola frase in codice. Non penso che racconterò mai quale band, quale cantante e quale album nominò, ma capii subito che cosa voleva dire. Mentre sapevo che non avremmo potuto fare quell’album, sperai che saremmo stati in grado di fare questo. Sembrava un bel parco giochi, una corsa su una giostra, andare a suonare con una band grandiosa e di larghe vedute sulla musica. Era come se avessimo potuto fare qualsiasi cosa”.

Qual è stato il processo concreto per la stesura delle canzoni?

EC: “C’era qualcuno che faceva da apripista, nello stesso modo in cui si scrive qualsiasi canzone. Siamo passati attraverso il dialogo piuttosto che direttamente dalla performance – come in Cadaveri eccellenti, quel gioco in cui la trama di una persona segue quella dell’altra. O come quando pieghi le bamboline fatte sui fogli di carta e poi gli disegni sotto le gambe. Avevamo già suonato insieme e conoscevamo le sensazioni che questo ci lasciava, ma volevamo delle prospettive diverse. Era tutto un work-in-progress, mixavamo già dal primo giorno e sviluppavamo il tutto man mano che le idee arrivavano. Ma non avevamo granché bisogno di discuterne. Non abbiamo mai avuto una sola conversazione su quello che stavamo cercando di fare, lo abbiamo fatto e basta. Semplicemente suoni, il disegno inizia a venire fuori e poi lo affini”.

AT: “Le canzoni più potenti prima devono suonare tali quando sono solo uno scheletro di canzone. Così solitamente iniziavamo con percussioni e piano da soli e, se l’effetto era abbastanza potente anche solo con due musicisti, allora passavamo al livello successivo inserendo la band al completo. Lanciavamo idee, parole senza senso, e poi gli davamo una forma una volta che eravamo sicuri del formato. Alla fine, Elvis tornava col testo e le parti vocali pronte. Abbiamo iniziato lo scorso agosto e, in dicembre, una o due volte a settimana passava a trovarci. All’inizio ci mandavamo le tracce via e-mail, ma poi abbiamo iniziato a desiderare un vero faccia a faccia. Abbiamo registrato molto nel nostro piccolo spazio a 30 Rock (la sala prove della band, al settimo piano del 30 Rockefeller Center, Manhattan). Non era uno studio tradizionale, ma per Elvis non ci sono stati problemi”.

Quando vi siete accorti che questa cosa si stava trasformando in un album?

AT: “Abbiamo una cosa come 4000 tracce nel nostro database, così ne abbiamo data una di sola batteria a Elvis, e qualche giorno dopo è tornato con una demo a tutti gli effetti. Ne abbiamo provate altre due, poi tre, e alla fine avevamo davvero qualcosa tra le mani. Senza etichetta e senza scadenze, il processo poteva andare avanti in modo davvero tranquillo”.

EC: “Non sapevamo quale forma avrebbe potuto prendere, se sarebbe stata una canzone, o un EP o cosa. Ma continuavamo ad avere nuove idee, e sembravano tutte collegate da un approccio al ritmo e alla scrittura dei testi. Non conosco un nome per questo tipo di musica. È un calderone pieno di polveri e pozioni, dita e rane, e questo è quello che io chiamo rock and roll – perché è proprio quello che era in origine. Non sono molto preoccupato dalle etichette. Quello che mi interessa è che ci piaccia e che sia coerente con le persone che siamo”.

Avevate un suono preciso in mente, un obiettivo, quando avete iniziato?

EC: “L’ultima cosa che vogliamo è che la gente dica: “Ah, so quello che stanno facendo”. Come se avessero già sentito metà del disco nelle loro teste. Ma giusto per essere chiari: non mi sono messo a fare un disco hip-hop. Sarebbe stata una via troppo facile e non avrebbe reso giustizia ai Roots”.

AT: “Nella società di oggi le linee sono sfocate, le persone cercano di mischiare tutto e liberarsi delle delimitazioni come meglio possono. Sia i Roots che Elvis Costello hanno sempre sperimentato – ma nessun gruppo hip-hop ha messo alla prova la pazienza e cercato di aprire le menti dei propri fan come noi. Semplicemente sapevo che non volevo fare niente di meno che un album che avrebbe retto per 20 anni, una Top Ten di Elvis Costello. Un album che a ventiquattro anni mi avrebbe fatto impazzire”.

EC: “Quando fai una cosa terribilmente diversa da quella per la quale sei noto, la cosa può sorprendere o addirittura far arrabbiare le persone. Ma la musica non si fa in base a chi potrebbe non ascoltarla. Bisogna seguire il cuore”.

Parliamo dei testi – per una registrazione che suona così piacevole, le parole dell’album sono inesorabilmente apocalittiche.

EC: “Non sono partito con l’idea di scrivere qualcosa di tetro, ma non puoi ignorare quello che vedi e senti. Se guardi fuori dalla finestra, se accendi la TV, se leggi un giornale, è tutto vero. Non sto dicendo nulla di nuovo , è come se ci stessimo adeguando allo stato di cose attuale, come se stessimo accettando l’idea che la nostra felicità venga a scapito di quella di qualcun altro, e che semplicemente sia giusto così. È tutto solo un cumulo di immagini prodotto nel corso degli anni, data la natura simile degli eventi che le hanno ispirate. Penso che una volta c’era un sogno comune, la volontà di arrivare a qualcosa di grande, e preferirei che anche noi cercassimo di raggiungere qualcosa di più bello, di migliorare le cose”.

AT: “Mi chiedevo se Elvis sarebbe stato un paroliere prolifico e denso come lo era stato nei suoi classici, ed è stato proprio così. Perfino i suoi testi d’amore sono vividamente descrittivi; è passato molto tempo dall’ultima volta in cui ho lavorato con un cantante che mi facesse vedere quello che stavo ascoltando, qualcuno che non stesse semplicemente cercando di fare uno schema di rime. È raro trovare qualcuno che spinge i testi al limite, mantenendo comunque un senso di chiarezza”.

Eppure, l’album finisce con If I Could Believe, e quindi un barlume di speranza, il desiderio di credere in qualcosa.

AT: “Nei Roots, io mi sono sempre occupato della musica. Nemmeno mi piace registrare le parti vocali. Ma ascoltando questo disco, e mentre cercavo idee per qualche video, ho iniziato a pensare, “Hey, questa è la storia d’amore più apocalittica che io abbia mai sentito!” Voglio dire, ci sono anche canzoni come Tripwire, che è semplicemente bellissima e seducente, una sorta di ninna nanna. Ma era come se avessimo bisogno di un attimo di respiro alla fine, come se dovessimo far atterrare l’aereo sul quale avevamo volato fino a quel punto. A Elvis andava, e così If I Could Believe è stata una delle ultime cose a cui abbiamo lavorato”.

EC: “If I Could Believe è una domanda semplice e sincera, arrangiata in modo minimal – e, data l’atmosfera apocalittica che permea il disco, penso sia perfettamente calzante. Ma nonostante tutto, alla base della musica del disco c’è un sentimento di gioia che gioca a contrapporsi ai testi. Sta tutto nel cercare di sentire un po’ di vita, un po’ di umanità”.

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Rumore, September 2013


Includes an interview with Elvis Costello about Wise Up Ghost.

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