L’album è il trentaduesimo, di una carriera che in quattro decenni buoni non ha mai conosciuto reali cedimenti, mantenendosi sul crinale di un’autorevolezza cresciuta costantemente negli anni. Le primavere sono sessantasette. Lui è Declan McManus, in arte Elvis Costello, e se esiste qualcosa chiamato “terza età” per chi suona rock and roll, vorremmo tutti che fosse come la sua.
Ci si perdoni la banale iperbole d’apertura, ma il motivo è presto detto: The Boy Named If, ennesimo con i fidi Imposters al completo – di fatto gli Attractions di una volta con un bassista diverso, per chi non lo sapesse – trasuda immediatezza e freschezza sin dall’attacco dissonante e micidiale di Farewell Ok, un pastiche tra I Saw Her Standing There e I Feel A Whole Lot Better che sembra sparato fuori dai solchi di This Year’s Model, con la differenza che questo non è il 1977. O forse sì? Per lui sembra esserlo, e tanto basta.
Nelle parole dell’autore, queste canzoni nascono infatti da una sorta di nostalgia per l’innocenza, o meglio per quel momento, preciso e indefinito allo stesso tempo, in cui si avverte il passaggio dall’adolescenza all’età adulta e che vorresti non finisse mai. Adesso, tra il voler esprimere questa idea e realizzarla in modo credibile, senza scimmiottarsi o autocitarsi, ne corre; poi, se si riesce a farlo in maniera così naturale, connettendosi al proprio sé stesso giovane rimanendo, semplicemente, chi si è adesso, è un valore aggiunto inestimabile.
Una questione da artisti di grosso calibro, si direbbe. E infatti, lo scarto temporale così ridotto con il precedente Hey Clockface, uscito a fine 2020, è indice di una fase creativa particolarmente attiva, che – non è cosa di poco conto – coincide con una passata preoccupazione per gravi problemi di salute e, chiaramente, con lo stop alle esibizioni dal vivo su larga scala a causa della pandemia.
Asciutto e ruvido quando deve esserlo (What If I Can’t Give You Anything But Love?, con il suo piano elettrico ultra-aggressivo, cortesia del solito Steve Nieve), altrettanto morbido e avvolgente alla bisogna (Paint The Red Rose Blue, delicata à la King Of America), a volte essenziale come r’n’r comanda ((l’esplosiva Mistook Me For A Friend, forte di un passaggio melodico vagamente simile a And I Love Her), altre complesso armonicamente e melodicamente (la traccia omonima), quest’album non si limita ad essere l’ennesimo compendio di uno stile – o meglio, di una pluralità di stili e voci da sempre adottate, dal pub-rock al soul, dal country folk al rock and roll classico – riconoscibile e personalissimo; è la più che degna manifestazione di un autore – e interprete, va detto – di tale caratura. Quello che ci si aspetta, e forse qualcosa in più.
Il rischio pilota automatico – del tutto fisiologico, da cui il Nostro non è certo immune, come tutti – è in parte scongiurato da un’urgenza espressiva e un’ispirazione tangibili, dal Bo Diddley di The Death Of Magic Thinking al classico sound Stiff Records di The Difference, dagli Who sixties di Penelope Halfpenny al riff ossessivo – qualcuno ha detto Money? – di Magnificent Hurt, per arrivare alla doppietta finale di Trick Out The Truth (immaginiamo Alex Turner prendere, ancora una volta appunti, con un grande testo che mette in parata i fratelli Marx, Mussolini, Gustav Mahler) e la maestosa Mr. Crescent, intensa e lirica come solo un Lennon o un Dylan. Ecco, se proprio va tirato fuori un termine di paragone per questo Costello maturo, propendiamo per il premio Nobel, con la consapevolezza – un po’ amara – che i riconoscimenti raccolti, nonostante l’ormai consolidato status di leggenda vivente (il Grammy conferito al recente Look Now), forse non saranno mai abbastanza.
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