TomTomRock, November 23, 2020

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Recensione: Elvis Costello – Hey Clockface

Elvis Costello: ovvero l’impossibilità di essere normale.

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   Franco Zucchermaglio

Elvis Costello Hey Clockface
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Mai stato un personaggio banale il signor Declan Patrick MacManus, in arte Elvis Costello. Nato artisticamente sul finire degli anni ’70, venne frettolosamente fatto rientrare agli inizi della sua carriera all’interno della scena punk (ma si sa, andando per generalizzazioni tutto quello che veniva dall’Inghilterra nel 1977 e suonava delle chitarre elettriche era etichettato all’epoca come punk), mentre era lontano anni luce da quella scena sia per l’approccio (“l’unica rabbia che provo è quella quando i discografici rifiutano le mie cassette”), che, soprattutto, per la sua raffinata capacità compositiva. Autore di razza (nel gotha degli autori inglesi e non solo, a fianco di Paul McCartney, Ray Davies e Paul Weller, per capirsi), esordì nel lontano 1977 con My Aim is True, piccolo capolavoro incastonato di gioielli (Alison potrebbe essere uscita dagli autori del Brill Building), seguito dai successivi This Year’s Model ed Armed Forces, che completavano nei due anni successivi una delle più leggendarie triplette discografiche di esordio che spinse il giovane Costello nell’olimpo degli artisti mondiali.

Da lì in avanti il suo percorso artistico ha seguito la stessa traiettoria di un ottovolante impazzito, spaziando dal soul di Get Happy (1980), al country & western di Almost Blue (1981), al pop scintillante di Imperial Bedroom (1982), all’Americana di King of America (1986), ai quartetti d’archi di The Juliett Letters (1993); e poi le collaborazioni, con l’eroe della sua infanzia McCartney (che definì la sua collaborazione con Costello la cosa più vicina a quella con John Lennon, non so se mi spiego), con il maestro del pop sofisticato Burt Bacharach (alla faccia del punk!), con il mood di New Orleans di Alan Toussaint, con il mezzo soprano Anne Sofie Von Otter, con l’hip hop dei The Roots.

Il più irresistibile antipatico del mondo
Personaggio scomodo, non facile; linguacciuto e insolente (“My ultimate vocation in life is to be an irritant”), spesso intinge la lingua nel curaro. E’ stato capace di compromettere nel 1979 la sua (all’epoca) immensa popolarità negli USA con una discussione da bar (argomento, meglio la musica inglese o quella americana; tanto per comprendere il livello di lucidità della serata) con i membri dalla band di Stephen Stills a Columbus, Ohio, dove, da ubriaco, definì provocatoriamente (erano in realtà due idoli della sua infanzia) James Brown “jive-arsed nigger” e Ray Charles “blind, ignorant nigger”, salvo scusarsi ovviamente il giorno dopo, ma ormai il danno era fatto (Costello è tutto fuorché un razzista) e ci sono voluti lustri per recuperare, anche se Ray Charles, signorilmente commentando l’episodio disse che le parole dette da un ubriaco in un bar dovrebbero restare dentro al bar e non finire sui giornali.

Un personaggio scomodo e antipatico quindi, ma anche un autore generoso e prolifico (siamo al 31simo disco) in grado di caratterizzare la sua oramai più che quarantennale carriera con scarti e salti, che lo hanno reso spesso più avanti, o nella peggiore delle ipotesi, a lato di una quella che poteva essere una rotta artistica più prevedibile e tranquilla. E’ un artista che non vive di rendita, che non viaggia con il pilota automatico e con il mestiere, ma che ama le sfide, le cose nuove, anche difficili e impopolari e per questo, a parte un nugolo di fans che lo seguirebbero anche all’inferno, non è generalmente molto amato: troppo raffinato per gli appassionati rock (“Il rock’n’roll è la più bassa forma di vita nota all’uomo”), troppo rock per gli amanti della musica d’autore, troppo inglese per gli amanti della musica americana, troppo country per gli amanti del pop d’Albione. Insomma, per quanto mi riguarda, un personaggio da adorare senza riserve.

Helsinki, Parigi, New York: i diversi umori di Elvis Costello e di Hey Clockface
In questo ultimo disco l’artista di Liverpool conferma ancora una volta la sua attitudine e il suo talento, presentando un’opera complessa, variegata, mutevole, non allineata e con più livelli di scrittura, sempre comunque eccelsa, presentando una serie di canzoni magnifiche, con un impianto di scrittura di altissimo livello. L’album è il frutto di tre sedute di incisione, diverse tra loro, anzi praticamente opposte le une con le altre, per luoghi e musicisti coinvolti. La maggior parte dei pezzi è stata incisa a Parigi con Le Quintette di Saint Germain, un gruppo di musicisti francesi dall’indole prettamente acustica e cameristica (violoncello, tromba, clarirnetto, discretissime percussioni), integrati dal fidato Steve Nieve al pianoforte, storico collaboratore del Nostro, eccelso pianista di formazione classica.

Due brani sono invece il frutto del lavoro svolto a New York City, con un ensemble sostanzialmente elettrico formato dal trombettista (e molto altro) ex Steely Dan, Michael Leonhart, con la mirabile chitarra di Bill Frisell, accompagnati da un altro pugno di musicisti tra cui l’incendiario Nels Cline, chitarrista dei Wilco. Infine, vi sono altri tre pezzi che il sempre imprevedibile Costello ha inciso in perfetta solitudine, con suoni elettronici (synth, chitarra, basso e vari noises) nell’inverno a Helsinki (perché Helsinki? Perché, come ha detto l’artista, era un posto dove non era mai stato, si svegliava la mattina con il gelo e andava in studio a registrare da solo con il fonico).

Hey Clockface: uno scrigno di sorprese da Elvis Costello
Il risultato è un disco diverso, vario, originale e estremamente stimolante. Ci sono gli spoken words dell’iniziale Revolution #49 con il quintetto parigino e Radio is Everything, cupa e suggestiva con gli inserti nervosi delle chitarre di Frisell e Cline; poi le struggenti ballate, l’eterea They’re Not Laughing At Me No, la notturna I do (Zula’s song), la dolcissima ninna nanna di The Last confession of Vivian Whip, con il piano delicato di Nieve (tutte con il quintetto francese); infine i pezzi più cupi e ritmati, dove affiora la mai sopita tensione con cui Costello ha sempre colorato molti dei suoi brani, il ritmo quasi dance di No Flag, la struttura complessa e melodicamente irresistibile di We are all cowards now, la saltellante Hetty O’Hara Confidential (tutte dalle solitarie Helsinki sessions), la progressione incessante e meravigliosamente colorata dal riff finale di fiati di Newspaper Pane (da New York, con Frisell a ricamare), il vaudeville spensierato della titletrack, con un esplicito omaggio all’amato Fats Waller.

I pezzi, frutto delle tre diverse sessioni di incisione, sono mischiati in modo apparentemente caotico, ma siamo certi che in realtà dietro ci sia un preciso disegno dello scrupolosissimo artista inglese; il risultato è un disco sorprendente, che cambia accento e registro in continuazione, prendendo sempre l’ascoltatore in contropiede, non offrendo mai percorsi comodi o prevedibili, lasciandolo così con una piacevolissima sensazione di stupefatta estasi che solo gli artisti come Costello sono in grado di regalare. Gran disco, insomma; ancora una volta mister MacManus, ci sorprende. E ci regala un’opera di qualità e di alto livello. Continua ad essere così irritante, Elvis: a noi va benissimo.


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Franco Zucchermaglio reviews Hey Clockface.

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Hey Clockface album cover.jpg

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