Repubblica, November 7, 2020

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Elvis Costello: confessioni di un ex punk per caso


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   Giuseppe Videtti

Dalla sua casa di Vancouver, via Zoom, il musicista ci parla del suo nuovo album. E di come un cancro (superato), l'età e questa pandemia lo hanno cambiato

"Sono venuto in Italia da piccolo, due volte, con mio padre, era il 1966, abbiamo fatto il giro completo, cinque giorni in una città e cinque in un'altra, in pullman, con altri turisti. L'ultima volta a Roma è stata dieci anni fa, un concerto, 43 gradi all'ombra, una giornata da incubo; poi una magica passeggiata a mezzanotte, la città deserta, un incontro a tu per tu con la storia. Il mio primo concerto lì fu uno special per la Rai al Piper Club, mi pare fosse il 1980, all'epoca dell'album Get Happy!!".

Elvis Costello, 66 anni, londinese, al secolo Declan Patrick MacManus, si diverte a ricordare. Nella diretta Zoom da Vancouver, dove vive con la moglie (la pianista e cantante jazz Diana Krall) e i loro due gemelli tredicenni, si comporta esattamente come in un'intervista vis-à-vis. Sembra ancora un ragazzo, capelli scompigliati e l'inseparabile montatura da secchione con lenti graduate. Ci fu un tempo, all'inizio degli anni Ottanta, in cui con il gruppo degli Attractions, fu protagonista di una seconda British invasion, insieme a Sex Pistols, Jam, Clash e Damned: un esordio fulminate (My Aim Is True, seguito a ruota da This Year's Model e Armed Forces) proprio in quell'anno di (dis)grazia (1977) in cui il punk mise a soqquadro la scena rock. Non era convinto del suo ruolo di celebrity, non lo è mai stato. Neanche oggi, nonostante la sua presenza nella Hall of Fame sia stata certificata nel 2003. In "Radio Is Everything," uno dei brani del nuovo album Hey Clockface (il 36°), canta, "I sound much better than I look, Like a hero in a book", vale a dire che, come per l'eroe di un romanzo, la sua musica è di gran lunga superiore all'immagine.

Durante il lockdown non ha smaniato sui social in cerca di visibilità, versando emoticoni di lacrime per un disco o una serie di concerti rimandati. "È stata l'occasione per trascorrere del tempo in famiglia" esordisce. "Normalmente i gemelli vengono con noi d'estate durante i concerti, ma quando vanno a scuola non ci vediamo molto. Quest'anno è stato diverso, stiamo insieme praticamente da marzo. Creativamente, ho iniziato la lavorazione di questo disco mesi prima del lockdown. Quando tornai a Vancouver, a marzo, il lavoro era quasi finito. Da quel momento ho composto e registrato in casa moltissime canzoni, ho anche scritto un dramma radiofonico. Certo, poi ci sono le dolenti note, io sbarco il lunario con l'attività live, lo stesso vale per mia moglie...".


Siamo di nuovo in piena pandemia, la produzione discografica è faticosamente ripresa ma i concerti sono ancora una chimera, almeno in Italia. Lei crede che il mondo dello spettacolo riuscirà a superare questo periodo drammatico?

Non posso fare previsioni, abbiamo scritto a matita le date dei concerti del 2021. Già a marzo il pubblico non si sentiva al sicuro nelle sale da concerto. Non si può suonare davanti a gente spaventata né voglio mettere a repentaglio la mia salute e quella della mia équipe. È difficilissimo rispettare il distanziamento sociale nel nostro lavoro. Dall'inizio della pandemia a oggi la situazione è stata gestita in maniera incoerente, almeno in Gran Bretagna, e in modo caotico negli Stati Uniti. Anche nazioni iper-civilizzate non sono state in grado di fornire supporto e cure adeguate alla popolazione. La pandemia ha evidenziato la debolezza della classe politica. Ora la comunità scientifica dovrebbe dare risposte chiare anche per rispetto e compassione nei confronti delle vittime e delle loro famiglie invece di straparlare nei talk show. L'impressione è che abbiamo perso tempo prezioso. Siamo in ritardo, come lo siamo sui problemi dell'ambiente.

Vuol dire che l'emergenza sanitaria si è trasformata in un dibattito politico?

Esattamente! E questo sarebbe positivo, se la discussione fosse stata costruttiva e non strumentalizzata a fini elettorali. Finora ho visto solo proclami finalizzati ad accrescere il potere personale di questo o quel leader. Cerco di tenermi al di fuori da questo dibattito, mi dico: sei un artista, fai il tuo lavoro. Ma ho anche composto una canzone che si chiama "We Are All Cowards Now" (Adesso siamo tutti codardi); non voglio essere annoverato tra i pavidi. L'avevo scritta pensando all'uso indiscriminato delle armi, mettendomi con fierezza tra quelli che non ne avrebbero mai imbracciata una. "We Are All Cowards Now" parla del coraggio di amare — oggi è molto più facile odiare — senza scendere nel luogo comune del peace & love anni Sessanta. Parlo della stessa ingiustizia e della stessa diseguaglianza sociale che esisteva in America quando avevo l'età dei miei ragazzi. Abbiamo cercato di ammantare tutto con il pretesto della civilizzazione e del progresso tecnologico, ma il capitalismo è marchiato: considera le persone come pedine, materiale usa-e-getta, oggi come allora.

Nel brano Newspaper Pane lei canta: "Quando uno si trova dove sono io adesso, può sentirsi diversamente, la scogliera precipita bruscamente, cade dentro il mare". Dov'è che si trova adesso?

Ho avuto un trauma un paio di anni fa, quando mi dissero che avevo un tumore. Fortunatamente l'hanno asportato senza conseguenze, ma fino a quel momento non avevo mai combattuto con la malattia e un cancro è qualcosa che richiede tempo per essere superato, anche se sei una persona positiva e piena di energia. L'ho metabolizzato ristabilendo alcune priorità. Non ho paura della morte in sé, né del futuro o del tempo che passa, sono felice di aver vissuto così a lungo, ma quando vedi che i tuoi amici cominciano ad andarsene — e quando hai la mia età è piuttosto comune — inizi a riflettere e a guardare l'altra faccia della medaglia: ho una madre di 93 anni che ancora viene ai miei concerti, due figli adolescenti, una moglie di dieci anni più giovane che ora è nella stanza accanto, sono qui a parlare con un giornalista italiano: questi sono privilegi...

Nonostante la malattia, lei sta invecchiando benissimo. Come fa a tenersi in equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo che passa?

Forse ho esaurito le altre opzioni quando ero più giovane, ahahahah. Magari ho anche alzato un po' il gomito in passato, ma non mi sento colpevole. Fortunatamente non sono mai stato alcolista o tossico: a un certo punto mi sono reso conto che l'alcol mi rallentava, e ci ho dato un taglio. Invecchiando ti rendi conto che devi cambiare comportamenti, soprattutto se sei consapevole che l'abuso di sostanze crea false prospettive — pensi di essere più creativo e coraggioso, ma è un'illusione; se vuoi avere un rapporto autentico con qualcuno hai bisogno di autenticità. Mi sento ancora figlio della middle class, uno che non ha mai smesso di lavorare dall'età di 17 anni.

Che aspettative aveva agli esordi? Lei ha cambiato genere spesso e inaspettatamente, collaborando con Bacharach, McCartney, Anne Sofie von Otter e il Brodsky Quartet.

Nessuna ambizione, nessun traguardo prefissato. Volevo fare musica e basta. Incisi tre album in diciotto mesi, le cose cominciarono ad andare velocemente, ma ero abbastanza lucido per capire che non mi interessava la vita da popstar, che era solo un incidente di percorso. Da ragazzino sentivo mio padre cantare alla radio, anche mio nonno era un musicista, sapevo che quello non è necessariamente un mestiere per diventare ricchi e famosi. Sbarcavano il lunario suonando, ed è questo che volevo fare io. Alcune cose sono successe per caso, altre perché le ho volute fortemente, come l'incontro con Chet Baker nel 1982 ("Shipbuilding"), l'amicizia con T-Bone Burnett, la collaborazione con Paul McCartney. Avevo bisogno di imparare, non ho fatto l'università, non leggevo libri — leggo ancora pochissimo — , impegno tutto il mio tempo a scrivere canzoni.

Il brano "No Flag" riecheggia i suoi dei primi anni punk, quando scelse questo impegnativo nome d'arte...

...Fu un'idea del mio manager, lo fece per attirare l'attenzione e dare una mano di vernice all'anonimo impiegato di un'azienda di cosmetici. Ci misi del mio col cognome Costello, che appartiene alla famiglia di mia madre (in realtà nessuno mi chiama Elvis, gli amici e mia moglie mi chiamano EC). All'epoca era considerata una scelta di rottura, per questo nel 1977 non esitarono a metterci in cartellone con gruppi come Damned e Clash, anche se c'era una differenza enorme tra il loro punk e la nostra musica. Diciamoci la verità, tecnicamente suonavamo molto meglio, ma non avevamo l'attitudine rivoluzionaria di Joe Strummer, che io adoravo. Ma allora non faceva differenza, era la musica che veniva dal basso che funzionava. Punk non era un'etichetta con la quale mi identificavo, perché già agli esordi scrivevo canzoni influenzato da stili diversi, dal country al ragtime. Fu un'opportunità, cavalcai l'onda.

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Il Venerdì di Repubblica, November 7, 2020


Giuseppe Videtti interviews Elvis Costello.

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