Dell’ultimo Elvis Costello si è già detto: della sua relazione con Diana Krall, dei suoi rapporti con la musica classica. Eppure non è a queste attrazioni (fatali) che bisogna guardare per capire il suo nuovo cd, uscito per la Deutsche Grammophon.
Perché North non è "solo" un disco di musica classica. Anche se ricorda vagamente The Juliet letters. Anche se la strumentazione è in prevalenza classica.
E non è nemmeno "solo" un disco di (tristi) ballate pop.
Costello ha scelto un’atmosfera aulica, da camera, che sfuma ulteriormente le ultime evoluzioni della sua musica (Painted From Memory, For The Stars e When I Was Cruel). Continuando ad obbedire a quella sete di creatività che lo obbliga ad abbeverarsi a più fonti, quasi fosse alla ricerca di una bevanda che conferisca la purezza eterna.
Non è il desiderio del musicista pop-rock che vuole vedere riconosciuta la propria nobiltà. Piuttosto è nutrimento, è alternanza necessaria e proteica. Confondere questo passaggio significa non comprendere il cammino di Costello, rimanendo vittime delle ipotetiche barriere tra un genere e l’altro.
Nonostante questo, North è purtroppo un disco monotono, per la scelta stessa dell’artista che ha deciso di muovere poco i suoi pezzi, ancora meno di quanto facesse in The Juliet letters. Questa sì è la novità dell’ultimo Costello: una mancanza d’ironia quasi assoluta.
A mancare è anche la title-track, che è rinviata al download dal sito ufficiale attraverso una password riservata ai possessori del cd: una piccola trovata per aumentare la curiosità attorno al disco o forse l’unico sberleffo che Elvis si è concesso per questo album.
Per il resto North è un disco di grandi ballate a cui mancano grandi spunti. Costello dimostra tutte le sue capacità interpretative: innalza la voce come una sottile domanda, la lascia cadere tra gli spazi del pianoforte e tra qualche melodia appena accennata, spezzata. Ci sono anche grandi arrangiamenti (Brodsky Quartet, Jazz Passengers, Mingus Big Band, Steve Nieve, Lee Konitz), ma, una volta esauriti, i pezzi rimangono a terra come foglie secche, prive di vita.
Gli archi sono l’elemento aggiunto, che rende l’insieme troppo sublime: forse Costello si è illuso di aver trovato la sorgente di tutte le fonti e vi ha lasciato scorrere le sue canzoni. Ed è un peccato, perché chissà cosa avrebbero potuto essere "When it sings" e "Still," se solo si fosse osato come nella bonus-track con i fiati, un tres e la chitarra di Marc Ribot.
Quest’ultima è la prova che Costello va considerato un musicista aperto, da cui bisogna sempre aspettarsi di tutto: un giorno ci mostrerà chiaramente che non c’è differenza tra pop e musica classica. E allora potremo vedere la musica come fa lui, da dietro i suoi bizzarri occhialoni.
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