Sentireascoltare, November 5, 2020

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Elvis Costello

Hey Clockface


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   Stefano Solventi

6.9

A volte tra tutto quello che puoi e che non puoi lasciarti alle spalle passa appena uno spiraglio, nel quale casomai s’infilano le canzoni. Come queste che Elvis Costello ha inciso appena prima e durante la pandemia, facendo tutto da sé a Helsinki (tre pezzi) per poi volare a Parigi, dove in pochi giorni ha inciso quasi tutto il resto assieme a un quintetto (pianoforte, tastiere, fiati, violoncello e percussioni) allestito per l’occasione, cantando e dirigendo – così sostiene il musicista londinese – “live in studio”. Una corsa contro il tempo, già. Per fronteggiare il tempo (quel bastardo). Per comprenderlo. Per fotterlo.

Sessantasei anni, un tumore (speriamo definitivamente) alle spalle, a due anni dal successo di Look Now che lo ha riportato al centro dei riflettori (vedi alla voce Grammy) dopo tanti lavori dignitosi ma talvolta automatici (per non dire autoreferenziali), Costello oggi è un rocker categoria senior che può permettersi di fare rock come se fosse pop, jazz o qualunque altra cosa. Non appare una scelta forzata perché lo fa da quasi sempre: dosi di eclettismo e imprevedibilità ne hanno caratterizzato la calligrafia fin dagli esordi, quando cavalcava la cresta di una new wave nervosa ma accorata (e sottilmente nostalgica).

Più avanti, le collaborazioni con Burt Bacharach, Allen Toussaint e The Roots, per citare quelle forse più note, non solo hanno aggiunto sfaccettature al suo repertorio, ma lo hanno progressivamente sottratto ai tentativi di una facile categorizzazione. Se lo si definisce “rocker”, come ad esempio ho fatto prima, non si può non avvertire un senso di inadeguatezza, di sfocatura. Elvis Costello si è ritagliato negli anni un perimetro o meglio una dimensione che non prevede riferimenti immediati né discendenza: c’è solo lui e l’aculeo sensibile del suo genio. Un punto di forza che può coincidere con la sua più grave debolezza (sì, anche la già citata autoreferenzialità). Da lui puoi aspettarti di tutto o niente di nuovo. Come nel caso di questo Hey Clockface.

Album numero trentuno in carriera, è quel che si dice un lavoro eterogeneo. Intendo dire: molto eterogeneo. Stilisticamente è così vario da sembrare un patchwork di materiale proveniente da situazioni ed epoche diverse: si passa da effervescenze swing al rock mutante, dalla jazz-song languida alla ballata folk-blues incupita, dal pop di stampo (eh, già) Bacharach a un reading che aleggia tra strane perturbazioni cinematiche. In questo quadro frammentato (o specchio frantumato, se preferite) si percepisce però un filo conduttore, quello che unisce senso di abbandono e allarme, una densa nostalgia a una strisciante distopia. Lo si può considerare, volendo, un monito rivolto agli abitanti di questi strani giorni (noi), impegnati ad arrancare sul piano inclinato di tempi che dilapidano più di quanto non sappiano (o vogliano) costruire.

I personaggi che prendono vita nei testi hanno tutti più o meno a che fare con un conflitto già consumato, si rivolgono con rimpianto, acredine, rabbia o fatalismo al fantasma delle possibilità perdute, forse al proprio stesso fantasma. In parte viene da pensare al Dylan che da Love And Theft in avanti rimesta nel ricco crogiolo di storie e leggende popolari, ma il materiale di Costello non si basa su mitologie che serpeggiano nell’immaginario profondo: se c’è mitologia è come implosa in vicende raccolte, frammenti di esistenze in bilico e perciò emblematiche, dal piglio spesso letterario e con la tendenza a consumarsi in interni febbricitanti, o al più su un palcoscenico di periferia. In quasi ogni canzone c’è un bilancio, spesso una sconfitta, ma quello che conta sembra essere il momento successivo, la tensione del passo in avanti che non conosce quale terreno calpesterà (se ci sarà).

A livello tematico non mancherebbero quindi le condizioni per un grande album, tuttavia non possiamo parlare di un lavoro pienamente riuscito: resta ahimé un retrogusto di spettacolarizzazione gratuita, ravvisabile soprattutto in alcune canzoni, come barchette di senso spedite sullo stagno artificiale del mestiere. Lo si avverte a partire dalla title track, uno swing irriverente che cita un pezzo di Fats Waller degli anni Trenta: siamo a metà della scaletta e inizia a farsi strada la sensazione di un troppo che stroppia pur nell’economia di questo “spettacolo d’arte varia” (citando sempre quel tale). E pensare che i primi sei episodi non avevano mostrato cedimenti, idealmente avrebbero costituito un EP perfetto: grazie all’inquietudine esotica di Revolution #49 (un parlato da brividi), a quella No Flag che sbraita isteria post-wave per ribadire la non-appartenenza alla filiera politica e ideologica del presente, a una They’re Not Laughing at Me Now che barcolla in un crepuscolo agrodolce e clownesco, alla livida Newspaper Pane (ospite Bill Frisell) con le sue crude vampe d’ottoni, alla mestizia tra languori da camera e brass band funeraria di I Do nonché – soprattutto – alla divagazione funk-blues infestata di amarezze e incubi contemporanei di We Are All Cowards Now.

Poi arriva il resto, che ahimé non riesce a mantenere lo stesso senso di urgenza solida e variegata. Sembra materiale uscito a corredo del progetto, a volte azzeccando la misura (la divertente giga latin/funk di Hetty O’Hara Confidential, la bacharachianissima ancorché assai mesta The Whirlwind, il talking suggestivo di Radio Is Everything con pennellate impressioniste di chitarra a cura di Nels Cline) e a volte meno (lo swing stanco di I Can’t Say Her Name, la torch song da carillon ai limiti dello svenevole di The Last Confession of Vivian Whip, l’altra tentazione Bacharach nel melò compiaciuto della conclusiva Byline). Sembrano il modo scelto da Elvis Costello per ribadire se stesso – il suo eclettico, inafferrabile talento – anziché raccontarci davvero qualcosa.

In conclusione, Hey Clockface è uno di quei dischi che hanno il potere di lasciarmi nel guado. Mi viene quasi la tentazione di liquidarlo come il classico lavoro tardo di un grande musicista che sta raschiando il fondo dell’armeria in cerca di altri proiettili da sparare, tuttavia – pilota automatico o meno – non sono pochi i colpi che arrivano a bersaglio con una lucidità fuori dal comune. L’ho ascoltato molto, ma resto col sospetto di non aver saputo coglierne la reale statura, destinata a rivelarsi – chissà – solo col tempo.

Il tempo, già. Quel bastardo.


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Sentireascoltare, November 5, 2020


Stefano Solventi reviews Hey Clockface.

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Hey Clockface album cover.jpg


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